«L'azienda guerra», un volume collettivo sulla privatizzazione della difesa

La guerra pubblica dei soldati di ventura

Chi l'ha detto che la guerra è un brutto affare? Insieme alle industrie belliche, ai trafficanti di armi, alle imprese del settore della sicurezza e della ricostruzione, molti governi sembrano apprezzare i vantaggi di un conflitto militare, che possa esportare gli «interessi nazionali», e magari anche la democrazia. Il problema è aggirare il dissenso di un'opinione pubblica non incline ad accettare né le motivazioni né i costi delle guerre. Eppure una soluzione esiste: trasferire compiti e responsabilità relative alla sicurezza - da sempre materia pubblica affidata allo stato - a soggetti economici che hanno proprio negli scenari di guerra una fonte di guadagno e da cui traggono il motivo della propria esistenza. E' l'ultima frontiera del modello neoliberista, la privatizzazione della difesa: una dettagliata analisi di questo fenomeno viene fornita in L'azienda guerra (a cura di Dario Azzellini e Boris Kanzleiter, Manifestolibri, pp. 215, euro 18), raccolta di saggi in cui si compie un giro del mondo delle aziende militari private e delle trasformazioni relative alle guerre di oggi. Si comincia dall'Africa. Il caso dell'Angola, affrontato da Lisa Rimli, è paradigmatico e mostra come uno dei paesi più ricchi dell'Africa, per quantità di materie prime, si trovi agli ultimi posti per quel che riguarda la qualità della vita. In Angola, secondo recenti stime, ci sono più mine antiuomo che persone: primato, questo, frutto di una trama di legami informali tra investitori stranieri e leader politici che ha compromesso la legittimità dell'autorità centrale provocando violenti scontri intrastatali. Per anni il conflitto angolano tra l'Mpla e l'Unita ha messo a rischio lo sfruttamento delle risorse petrolifere controllato dalle imprese occidentali.

Il governo centrale, su pressione delle aziende di estrazione, ha deciso di stipulare un contratto da 40 milioni di dollari con la Executive Outcomes - una impresa militare privata sudafricana - per addestrare le forze armate angolane e proteggere le principali installazioni petrolifere minacciate dal dilagare degli scontri. A cominciare da quelle della multinazionale canadese Ranger Oil, che in Africa realizza gran parte dei suoi profitti. L'intervento della Executive Outcomes si inserisce nel quadro politico che ha portato alla firma dell'accordo di pace di Lusaka nel novembre 1994. La situazione angolana rispecchia quella del Congo, descritta da Björn Aust, dove in seguito all'indipendenza dal Belgio nel 1960, forze armate governative, eserciti ribelli finanziati da paesi stranieri e truppe private al servizio delle industrie estrattive occidentali, si sono contentese il controllo delle «economie di guerra locali» fino alle recente elezioni presidenziali.

Gli Stati Uniti invece investono nel settore privato una parte altissima del proprio budget per la difesa: oltre 30 miliardi di dollari fino al 2003. Tra il 1994 e il 2004 il governo Usa ha stipulato più di 3000 contratti con imprese miliari private per i servizi alle missioni militari all'estero. Solo in Iraq, i contratti ammontano a 48,7 miliardi di dollari.

Dario Azzellini, nel saggio dedicato alla situazione irachena sostiene che «l'esternalizzazione dei servizi non riduce la spesa militare, serve a mantenere attive contemporaneamente varie guerre o scontri armati, come esige la nuova dottrina militare statunitense, e a sottrarre gli interventi militari al controllo pubblico e parlamentare, a compiere missioni segrete, a occultare il numero dei propri caduti sul fronte, infine ad aggirare leggi e accordi internazionali». Mentre il numero delle vittime dei «contractors» è di poco inferiore a quello dei soldati «regolari».

E l'Italia? Anche il nostro paese ha interessi e uomini all'interno delle imprese di difesa privata. Il saggio di Marco Coscione ci riporta in Iraq, al 12 aprile 2004, giorno del sequestro di Fabrizio Quattrocchi, Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino. Il sequestro si conclude con la morte di Fabrizio Quattrocchi e la liberazione degli altri ostaggi dopo 56 giorni. Di questo caso vengono analizzate le numerose zone grigie legate alle dinamiche politiche, alle risposte istituzionali e alla lacunosa informazione dei media italiani sulle attività delle imprese di sicurezza italiane in Iraq, in particolare della Presidium International Corporation diretta proprio da Salvatore Stefio. Un intreccio, questo, ancora tutto da approfondire.


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