La rivoluzione bolivariana è nel mirino della geopolitica imperiale

Il Venezuela dinanzi al dilemma militare

La rivoluzione bolivariana, in Venezuela, è nel mirino della geopolitica imperiale di Washington. Le immense ricchezze petrolifere che giacciono nel sottosuolo, hanno trasformato il paese caraibico in un prezioso bottino per l’avidità della prima economia mondiale, che in grandissima misura si alimenta di petrolio. D’altro canto, il processo di cambiamento che vive la sua società dall’arrivo alla presidenza di Hugo Chávez ed il “cattivo esempio” che rappresenta per i paesi vicini del subcontinente – i quali hanno già iniziato a coalizzarsi in un progetto autonomo ed antimperialista come l’ALBA – sono tendenze che la Casa Bianca desidera ribaltare urgentemente. A tal fine ha già sciorinato un repertorio di azioni criminali (golpe, sabotaggio petrolifero, sciopero padronale), senza ancora nessun successo, fino ad ora. Ma la lotta continua, e sono diversi i fronti nei quali va avanti la destabilizzazione: la guerra mediatica, il sabotaggio economico, la speculazione finanziaria, la ricerca della ingovernabilità attraverso un quotidiano ostruzionismo, la promozione di forze “democratiche” come l’attuale movimento studentesco medio-borghese mascherato da progressista, etc. etc. A tutto questo, si aggiunga l’opzione militare.

Sebbene in questo momento non sembrerebbe possibile una invasione diretta da parte dell’esercito statunitense, l’opzione bellica prende altre forme, non per questo meno pericolose. Per entrare nei dettagli, Argenpress, grazie al suo corrispondente di Caracas, Marcelo Colussi, ne ha parlato con uno specialista in materia: il politologo di origini italiane Dario Azzellini, che da cinque anni vive e segue da molto vicino questi processi in terra venezuelana. Autore di varie pubblicazioni su argomenti militari – “L’affare della guerra”, “L’azienda guerra” -, le sue parole non fanno altro che confermare ed ampliare con dati precisi ciò che le più alte autorità del governo vanno già segnalando in questi ultimi giorni, e che anche il presidente Chávez ha reso pubblico senza giri di parole: siamo nel mezzo di una strategia pianificata da Washington di penetrazione di paramilitari colombiani che fanno opera di destabilizzazione all’interno del Venezuela. Sembrerebbe questa la modalità che sta adottando oggi l’attacco militare: « Non usano fucili né vanno vestiti con uniformi militari, ma stanno acquistando case, aprendo ristoranti ed attività commerciali dove vendono alcolici, e sottobanco, droga ».

Argenpress: così come stanno le cose, è lecito pensare ad un intervento militare degli Stati Uniti in territorio venezuelano?

Dario Azzellini: un intervento diretto non sembrerebbe possibile, né a breve né a media-lunga scadenza. Non c’è una situazione politica in America Latina, al momento, che lo permetterebbe. D’altra parte un intervento diretto risulta essere un’avventura troppo grande e niente indicherebbe che il governo degli Stati Uniti è disposto a correre un rischio tale. Ci sono molte probabilità che si trasformi in un nuovo Vietnam, e sicuramente non hanno intenzione di ripetere qualcosa del genere. D’altronde, visto il consumo immenso di petrolio degli Stati Uniti al suo interno, non sono in condizioni di rischiare di perdere la fornitura del Venezuela per un tempo che non si sa quanto potrebbe essere se si avventurassero in una azione militare diretta. Per questi motivi, credo che non sia concepibile un intervento diretto con le proprie truppe, ma è possibile un’altra modalità, che in realtà stanno già sperimentando, e nel medio termine potrebbe acquisire più consistenza, ossia organizzare una opzione militare simile a quella che fu la Contra in Nicaragua anni fa, in versione modificata e corretta. Come lo farebbero qui? Attraverso il paramilitarismo colombiano.
In una prima fase, il paramilitarismo colombiano cominciò a penetrare il Venezuela dal punto di vista economico. Di fatto ha il controllo di molti settori, con terreni e tutta una logistica che permette loro di contare su luoghi sicuri per agire e poi ripiegare quando è il momento. Nel territorio nazionale controlla il contrabbando di benzina dal Venezuela verso la Colombia, e questo è un affare molto grande. Controlla il narcotraffico, e si può supporre, partendo dai dati che sono venuti alla luce recentemente, che controlla anche il contrabbando di alimenti. Se è già avviata la struttura per il contrabbando della benzina, possono utilizzarla tranquillamente per contrabbandare qualsiasi cosa, come alimenti, per l’appunto. E con ciò, giustamente, si nota il profilo destabilizzante che esiste in questo contrabbando: si provoca la crisi di rifornimenti, il che causa la ingovernabilità in Venezuela. Di fatto, in Colombia i paramilitari hanno il controllo di una parte dell’approvvigionamento di latte. Si può quindi dedurre che nell’attuale scarsità di latte in Venezuela sarebbero coinvolte queste organizzazioni, agendo in definitiva con un fine politico.
Oltre a questo, ci sono altri fenomeni di paramilitarismo colombiano all’interno del territorio venezuelano, come per esempio la collaborazione con gli allevatori. Molti dei sicari responsabili della morte di leader contadini del Venezuela (186 dal 2001, quando entra in vigore la Legge della Terra) sono colombiani. E questo è molto facile da scoprire, perché semplicemente vengono identificati per il loro accento. Ci sono molti testimonianze al riguardo.
Si è a conoscenza della presenza di paramilitari colombiani in Venezuela, anche se ancora non stanno agendo come formazioni armate così come fanno in Colombia. Al momento gli assassinii che provocano sono mirati, e agiscono in piccoli gruppi di due o tre persone. Non ci sono massacri enormi come abitualmente fanno in Colombia.
Cominciarono ad entrare in territorio venezuelano attraverso una regione di frontiera come Táchira. Nella città di San Cristóbal, Táchira, il paramilitarismo riscuote il “vaccino” [pizzo] da tutti i commercianti. E quelli che non lo versano, è perché sono loro attività commerciali, e ce ne sono, naturalmente. Hanno scelto San Cristóbal perché è situata all’entrata della cordigliera della Ande. Il progetto strategico del paramilitarismo colombiano che si sta costruendo, cercando di coinvolgere anche dei venezuelani, è quello di avere il controllo di questa cordigliera. Ciò gli offrirebbe il controllo militare su tutti i territori de los llanos, la pianura. E per un altro verso è un canale diretto da Cúcuta, capitale del paramilitarismo in tutta la Colombia, alla frontiera con il Venezuela, fino all’entroterra dello stesso Venezuela per far passare di lì ciò che desiderano: armi, droga, persone. Assicurandosi il controllo di tutta questa zona potrebbero praticamente muoversi con tutta tranquillità dalla Colombia fino alle porte di Caracas.

Argenpress: il progetto, quindi, sarebbe quello di creare una nuova contra, come quella che ci fu in Nicaragua durante tutta la decade degli anni 80 del secolo passato riuscendo alla fina a sovvertire la Rivoluzione Sandinista. Siamo effettivamente in una situazione del genere?

Dario Azzellini: a medio termine direi di sì: una Contra come quella del Nicaragua. Al momento si sta costruendo la struttura necessaria, la logistica che gli permetta di operare con tranquillità. Per esempio, stanno cercando di avere il controllo delle imprese e delle cooperative dei tassisti. A Barinas la maggior parte già appartiene, direttamente o indirettamente, al paramilitarismo. E nelle imprese dove non c’è il controllo dei paramilitari, uccidono i tassisti. Si potrebbe pensare che, a medio termine, assassinando tassisti ed anche trasportatori, cercano di mettere il settore dei trasporti contro il governo. E chi si ricorda del Cile di Salvador Allende sa quanto è importante in questo settore una strategia di destabilizzazione. Oggi i paramilitari stanno facendo un lavoro con i tassisti perché questo è un settore basilare per sviluppare intelligence. Questa non è una novità, si fa da tutte le parti.
Sono già due anni che il paramilitarismo ha dato inizio ad una strategia massiccia di penetrazione nei quartieri di Caracas. Guadagna terreno dando cocaina a prezzi molto bassi, o addirittura regalandola, a piccoli gruppi di criminali. In questo modo comincia a reclutare persone, ad avere strutture nei quartieri; il prossimo passo sarà quello di armarle per dare solidità a questa struttura, per renderla operativa in funzione dei piani futuri. Da quasi un anno stanno cercando, con queste strutture, di impedire l’organizzazione della gente a livello comunitario, nei vari quartieri. Per esempio, nei luoghi dove i consigli comunali si sono organizzati ed hanno iniziato a raggiungere alcuni obiettivi – rendere i propri quartieri più vivibili, tra le altre cose, aumentare la sicurezza, tornare a promuovere attività ricreative sane etc. - , proprio lì, curiosamente, risorge la delinquenza con più forza. Non si tratta di qualche ladruncolo; no, c’è tutto un piano di organizzazione della delinquenza, quasi con una logica militare. Non possiamo pensare che l’aumento di crimini nell’ultimo anno sia casuale. È una doppia strategia: da un lato creare il panico, malessere, instabilità. Dall’altro, creare le condizioni affinché, in un dato momento, possano irrompere loro stessi offrendosi come forze dell’ordine. La stessa logica che hanno avuto in Colombia. Nella zona di frontiera, che sia Barinas, Apure, il Táchira, Mèrida, Zulia, ci sono sindaci, dell’opposizione così come bolivariani, che collaborano con il paramilitarismo. Tutto questo la popolazione lo sa, anche se non dispone di una documentazione che lo provi. La base denuncia, però poi non c’è seguito. Non c’è nessun organismo, che si sappia, che stia lavorando in maniera organica e sistematica mettendo insieme tutte queste informazioni; o forse sì, ma non è stato reso ancora pubblico. Si fanno sforzi contro il paramilitarismo, però non c’è, almeno al momento, una politica di Stato chiara per tutto questo, una risposta contundente e completa per attaccare il fenomeno.
A tutto ciò bisogna aggiungere l’impunità, che continua ad esserci. Sappiamo che gran parte della Giustizia sta ancora sotto il controllo della opposizione alla rivoluzione. Per esempio, in relazione ai 186 contadini di cui parlavamo prima, non c’è ancora un colpevole. Questo, ovviamente, agevola il lavoro al paramilitarismo, perché la impunità gli apre porte invece di chiudergliele.

Argenpress: se il governo è in possesso di dati su questa avanzata del paramilitarismo, se lo stesso Presidente Chávez lo sta denunciando nei suoi ultimi discorsi, perché sembra che non ci sia un piano organico per affrontare la questione? A cosa si dovrebbe questo?

Dario Azzellini: è sicuro che il presidente Chávez denuncia da tempo la questione del paramilitarismo ed ha espresso la sua profonda preoccupazione, ma sappiamo anche che molte volte lui dice una cosa ma poi coloro che dovrebbero mettere in pratica ciò che il presidente ha detto, ne fanno un’altra. Ciò dimostra una volta di più quanto è vulnerabile tutto questo processo: ci sono una infinità di persone che maneggiano affari di Stato senza avere la seppur minima convinzione ideologica, stando lì per puro opportunismo, corruzione, o semplicemente non hanno nessuna formazione politica e la situazione li oltrepassa. Vediamo il caso del contrabbando di benzina. Non stiamo parlando di una certa quantità di litri, no, lì passano quotidianamente migliaia e migliaia di litri di benzina. E non passano certo attraverso il fiume. Una gran quantità di camion viaggiano tranquillamente su strada, e senza dubbio con la complicità di qualcuno che gli facilita l’affare: soldati e guardie nazionali venezuelane, ed anche colombiani. Altrimenti, non sarebbe possibile. E lo stesso succede con il contrabbando di alimenti, che non è praticato da una sola persona con un paio di chili di farina per il pane, ma si tratta di tonnellate e tonnellate di cibo, che per forza devono viaggiare su camion. Adesso che le operazioni per intercettare questo contrabbando si sono intensificate, tra il 18 ed il 25 gennaio sono state sequestrate 6.000 tonnellate di cibo. Questo è già tanto, ovviamente. E cosa significa? Che se in pochi giorni si è potuto fare un sequestro di tale portata, quanto invece ne è passato fino ad ora? Quanto continua a passarne per altri stati di frontiera dove non si conducono operazioni di controllo? Spaventa saper tutto questo. Cosa si è fatto durante tutto l’anno precedente? Non lavorano gli organismi di controllo?

Argenpress: quindi sappiamo che tutto questo fenomeno del paramilitarismo non è niente di casuale, occasionale, ma risponde ad una strategia militare ben pianificata, con una prospettiva a medio e lungo termine. Partendo dalla Colombia, dove si porta avanti il Plan Patriota, che relazione potremmo incontrare tra questa attuale avanzata paramilitare in Venezuela ed i piano bellici continentali che il governo degli Stati Uniti sospinge utilizzando la Colombia come la sua base per l’America Latina?

Dario Azzellini: il paramilitarismo della Colombia è sostenuto dallo Stato e dalle sue forze armate in stretta correlazione con la strategia di dominazione del governo degli Stati Uniti, è sempre posto al servizio delle elite e del governo colombiano. Durante il Plan Colombia, predecessore dell’attuale Plan Patriota, l’Ombusdman del Putumayo aveva detto chiaramente che era più che evidente che i paramilitari erano la punta di lancia di questa iniziativa bellica. In realtà, arrivarono prima i paramilitari a preparare il terreno, dopodiché si diede inizio al Plan Colombia. Ci sono moltissime prove che legano l’esercito colombiano ai paramilitari, sebbene ciò, naturalmente, non sia mai qualcosa di ufficiale. Armare la Colombia nel modo in cui si è fatto è una strategia del governo degli Stati Uniti per creare una minaccia, non solo verso il Venezuela, ma anche verso gli altri paesi latinoamericani. Significa dimostrare che la Colombia è una roccaforte, una base militare pronta per agire in qualsiasi parte del continente. Pertanto è cruciale, per gli Stati Uniti, non perdere il controllo della Colombia. Per la geostrategia del governo statunitense, questo è un paese chiave: è l’unico, in America Latina, ad avere l’accesso all’Oceano Atlantico ed all’Oceano Pacifico, ha cinque grandi foreste, risorse energetiche considerevoli, accesso all’Amazzonia, e molto più: un ponte verso il nord – è l’unico collegamento via terra dal sud verso il Centroamerica e da lì verso il nord -. È chiaro che occupa un posto molo importante nella sua strategia e faranno di tutto per non perderlo. Inoltre, gli serve per mantenere sotto minaccia tutti gli altri paesi sudamericani.

Agenpress: vale a dire che il ruolo che svolge la Colombia, ora con il Plan Patriota, erede del Plan Colombia, va più in là anche della Rivoluzione Bolivariana e del “fastidio” che reca Hugo Chávez all’impero.

Dario Azzelini: esatto. Il Plan Colombia e tutta questa strategia nacque con Clinton, non dobbiamo dimenticarlo. Questa geostrategia di dominio continentale di Washington è indipendente da Chávez. Nella sua essenza consiste nel costruire questo fortino militare come minaccia per tutti i paesi della regione. E relativamente a ciò che specificamente stanno facendo adesso contro il Venezuela, va anche oltre i paramilitari; voglio dire: usano armi diverse. Tra le altre, le provocazioni militari dell’esercito colombiano, che vorrebbe causare qualche reazione armata da parte del Venezuela per poi accusare il governo di Chávez all’interno della OEA (Organizzazione degli Stati Americani, ndr) ed attaccarlo con una furiosa guerra mediatica. Di fatto, negli ultimi anni le truppe colombiane, dell’esercito e dei paramilitari, hanno oltrepassato le frontiere molte volte. Passano la frontiera, provocano qualche fatto di violenza, e poi ritornano in Colombia. Non ci sono dubbi che stanno cercando di vedere se il Venezuela risponde militarmente, per poi mettere su tutto lo spettacolo mediatico che già sappiamo sanno fare, denunciando la minaccia che il governo di Chávez rappresenta per la pace nel continente.

Argenpress: in questa prospettiva, quindi, di fronte a questa minaccia bellica che rappresenta l’avanzamento del paramilitarismo, in aggiunta alla guerra mediatica alla quale si vede sottoposta giorno dopo giorno, e dopo la sconfitta elettorale nel referendum del passato dicembre, con le elezioni amministrative di fine anno, che scenario vede per la Rivoluzione Bolivariana nel 2008?

Dario Azzellini: un punto essenziale è vedere se si riesce realmente ad avere una efficace azione di governo. Sappiamo che ci sono molte cose che funzionano a metà, ed altre che funzionano in maniera congiunturale. Mi sembra che sia importante, per la salvaguardia della Rivoluzione, che la gente veda più e migliori risultati in tutti i progetti che si portano avanti. E cioè: che le cose funzionino. Da qualcosa apparentemente banale come la raccolta della spazzatura in ogni città fino ai problemi generali a livello nazionale. Un’altra cosa fondamentale è vedere se per le prossime elezioni si riesca a presentare candidati scelti veramente dalla base. Questo, fino ad ora, non è successo, e migliorare questo aspetto sarebbe importante anche per l’avanzamento del processo rivoluzionario. Credo che per affrontare tutto questo, significhi dire: dal paramilitarismo fino a questi aspetti di corruzioni ed inefficienza che tanto male fanno alla Rivoluzione dall’interno, la unica opzione è più potere popolare. Coinvolgere di più la base, le persone; questa deve essere la soluzione. Per esempio, nell’ambito militare, anche i comandanti di qualsiasi base dell’esercito o della Guardia Nazionale dovrebbero essere approvati dalle comunità. È solo un esempio, però così dovrebbe essere la dinamica, perché le comunità sono quelle che realmente sanno ciò che succede: se tal comandante di una base è corrotto o no, se sta facendo affari con il legname o difende i narcotrafficanti. La gente sa tutto questo, ma non ha canali per esercitare il suo potere reale, per rendere pubbliche le denunce, per fare pressione. Nella nuova Polizia Nazionale che si sta creando, stanno pensando a questo tipo di meccanismi; dunque qualcosa di simile dovrebbe essere per tutte le strutture dello Stato: che la gente da ogni comunità sostenga, o cacci, i funzionari.

Argenpress: visto che solo l’organizzazione popolare dal basso può essere garanzia del consolidamento della rivoluzione, che dire degli aspetti militari? Milizie popolari armate, dunque? Popolo armato per difendere la Rivoluzione?

Dario Azzellini: senza dubbi. È assolutamente necessario come forma del potere popolare. Ovviamente, queste strategie di destabilizzazione come lo sono i paramilitari, o la Contra in Nicaragua negli anni ottanta, consistono nel non affrontarsi con l’esercito regolare. Piuttosto si dedicano al logoramento della popolazione, producendo attacchi militari minori. E la maniera migliore di rispondere a questo, evitando così di far crescere tremendamente l’esercito, è armare la gente, promuovere l’autodifesa rivoluzionaria. In questo senso è un compito politico necessario la costruzione di milizie popolari per difendere l’avanzamento del processo. Ci sono organizzazioni popolari di base che lo stanno chiedendo. Nella recente riunione di consigli comunali ed organizzazioni rivoluzionarie di base che sono nate dalla sconfitta del referendum, questo tema è stato discusso. Bisognerà vedere come va avanti tutto ciò, cosa dice il governo al riguardo. Con il movimento contadino si è lavorato di più sul tema. Una parte considerevole della popolazione contadina partecipa nelle riserve ed è in coordinamento con alcuni settori dell’esercito. Non in tutto il paese, però ci sono milizie contadine armate.

Argenpress: parlando di paramilitarismo che proviene dalla Colombia con il suo Plan Patriota, non possiamo fare a meno di considerare cosa succede in questo paese e quali prospettive reali s’intravedono nel futuro. Sappiamo che lì c’è il movimento più vecchio del continente, con due formazioni guerrigliere molto forti, ma c’è un sostanziale pareggio con le forze armate dello Stato capitalista, a cui si aggiunge l’affare del narcotraffico che è l’altro grande strumento che utilizza la destra. Tutta questa situazione molto complessa è lontana dal risolversi nell’immediato, né a medio termine. Che scenario si può vedere qui, e che influenza avrebbe questo per il Venezuela?

Dario Azzellini: è davvero un problema difficile, perché la oligarchia colombiana è la più dura di tutto il continente. Si è visto che non è disposta a cedere niente di niente. Si potrà avere la pace però, solo se c’è un cambio reale nella struttura sociale ed economica del paese. Questo è ciò che cercano le due formazioni guerrigliere – FARC ed ELN - , e nessuno di loro sosterrà processi di negoziazione come quelli del Guatemala o del Salvador facendo concessioni da questo punto di vista. Ossia, è una situazione molto complicata, perché i gruppi armati non deporranno le armi fino a quando non ci sia un cambio effettivo nella struttura socioeconomica, e la oligarchia colombiana non è disposta a cedere nulla. Al momento registriamo un pareggio, ed oggi come oggi non si vede come si possa risolvere questo problema. Una buona notizia è stata che la sinistra abbia vinto nelle amministrative di varie città importanti del paese. Ma non so quale prospettiva reale porti a lungo termine. La situazione è senza dubbio molto, molto delicata. Credo che le élite dovranno prendere in considerazione questo nel futuro, perché i gruppi armati già hanno detto che non deporranno mai le armi; forse non le useranno nel caso si dia inizio a processi di pacificazione, ma non le consegneranno mai. E questo si può comprendere, perché tutti i movimenti guerriglieri che negoziarono processi di pace in Colombia, consegnando le armi, finirono al cimitero. Pertanto, non ci sono segnali che portino a un disarmo. E nessuna delle due parti cede nulla. D’altro lato è impossibile che i movimenti armati trionfino in termini militari, perché se succedesse, sicuramente il governo degli Stati Uniti non lo permetterebbe, arrivando magari a bombardare il paese. Con questi piani aggressivi, come il Plan Colombia o il Plan Patriota, per le formazioni guerrigliere, che non sono state sconfitte sul piano militare, si è complicata la possibilità di fare un lavoro politico. Prima potevano contare su una maggiore presenza nelle comunità, e nelle aree rurali “amministravano” realmente grandi territori. Ma con l’incremento di questi piani si è allontanata molto di più la possibilità di lavorare con le popolazioni, di fare lavoro politico di base. Con questo, quindi, si rafforza il messaggio che le élite e gli Stati Uniti vogliono dare: che queste guerriglie non sono movimenti politici, per cui aumenta il loro discredito.

Argenpress: senza alcun dubbio il panorama politico per i movimenti popolari di tutto il Latinoamerica è complicato. In questo senso, l’ALBA può essere una opzione alternativa?

Dario Azzellini: sì, senza dubbio. Ha già cominciato ad essere un polo interessante come alternativa. Ora, per esempio, inizia a crescere questa prospettiva di coinvolgere anche il Caribe. Sebbene non sia un messaggio pesante dal punto di vista economico, lo è in termini politici e culturali. Se tutta questa regione comincia a guardare verso il sud, verso l’America Latina e non tanto verso gli Stati Uniti, questo rappresenta un cambio importante. Adesso è entrata la Repubblica Dominicana nell’ALBA. Naturalmente non è così significativo il suo contributo economico, con i suoi appena 150.000 abitanti, ma ha un valore simbolico molto grande: si iniziano a stabilire legami tra paesi e popoli storicamente separati. Penso che si possano avere ancora più adesioni dal Caribe, perché per questi piccoli paesi può essere molto interessante questo progetto. Nel panorama attuale, le possibilità di crescere in blocco sono limitate, ovviamente. Potranno entrare alcuni di questi paesi caraibici e l’Ecuador; non credo che ci siano molti più paesi che ne faranno parte. Ma non ci sono dubbi che l’iniziativa va acquistando maggior peso. Quando si mise in cammino c’erano solo due paesi: Venezuela e Cuba, e solo buone intenzioni. Questo già è cambiato in pochi anni. L’importante è vedere se si può continuare a coinvolgere nell’ALBA non tanto i governi quanto invece i movimenti popolari. Questa potrebbe essere una chiave molto interessante, ed al riguardo il Venezuela sta contribuendo molto, per esempio, con borse di studio ed incentivi. Creare questa coscienza di unità continentale, anche se non ci sono i governi, può essere molto importante, con una grande potenzialità per le basi popolari. Tutte queste cose, è vero, effettivamente danno fastidio all’impero. Danno fastidio, anche solo per il semplice fatto di rompere la logica mercantile per la unione tra gruppi. La minaccia sta lì, perché propone un altro modello. Fa vedere che “un altro mondo è possibile”, effettivamente. Bisognerà vedere come procede, se si ferma o continua a crescere.

Argenpress: se l’ALBA cresce e si consolida sappiamo che in buona misura sarà perché il Venezuela, per mezzo del fenomenale guadagno che gli garantisce il petrolio, lo rende possibile. Detto questo, sarà possibile un intervento militare diretto da parte dell’impero su queste riserve petrolifere?

Dario Azzellini: io direi che la strategia del governo degli Stati Uniti, sebbene continui a fare pressione su tutti i fronti, è piuttosto quella di aspettare che il Venezuela cada da solo. Ancora non è necessaria una invasione. Credo che, addirittura, un intervento militare esterno possa rafforzare il progetto rivoluzionario. Per questo, piuttosto, la politica dell’impero è puntare sull’avanzamento del paramilitarismo. E se non gli si dà un freno ora, probabilmente risulterà molto difficile continuare con il processo di trasformazione in Venezuela. Questo paramilitarismo sarà quello che impedirà di dare seguito alla organizzazione popolare, quella che farà fallire i vari programmi che voglia intraprendere il governo, che continuerà a contrabbandare il cibo e rubandolo per la Colombia. Tutto questo è una bomba a tempo per la rivoluzione, e per questo bisogna fermarlo ora.


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